Quindici anni. Tanti sono gli anni che ha Più libri più liberi. Per chi all’epoca frequentava i primi anni della scuola dell’obbligo – come chi scrive – #plpl ormai ha il sentore di un evento che esiste da sempre, una realtà di cui si sente parlare e che, quando finalmente si vede dal vivo, non delude affatto le aspettative. Ora, qualche anno dopo il mio primo incontro con la fiera durante gli anni universitari, sono qui a parlare al telefono con Fabio Del Giudice – che ora è a Francoforte a seguire l’edizione 2016 della Buchmesse – del perché di questa fiera e del perché continua a essere l’unica manifestazione del genere in Europa (anzi, forse nel mondo).

Quindici anni fa avvertiva le potenzialità che c’erano in una fiera dedicata esclusivamente alla piccola editoria?

Assolutamente no. Anzi: quando Aie mi affidò l’organizzazione della manifestazione, come si dice in questi casi, mi tremavano le gambe. Temevo erroneamente, come molti, che difficilmente un comparto industriale e un segmento pur importante del nostro settore come la piccola e media editoria avrebbe potuto sostenere da sola una fiera nazionale del libro. Una fiera che, tra l’altro, doveva essere organizzata con paletti molto rigidi: soglia di fatturato allora di 10 milioni di euro di copertina (oggi è di 13); nessun collegamento a gruppi editoriali; stand uguali per tutti. Mi appariva un’operazione al limite dell’impossibile. Aie, tranne che per la partecipazione alle fiere internazionali con uno stand collettivo, non aveva alcuna esperienza in questo campo. L’idea la portai avanti con la squadra che ci costruimmo per l’occasione, ma onestamente senza essere convinto che – in termini di sostenibilità economica, di ritorno di pubblico, di comunicazione, di partecipazione stessa delle case editrici – sarebbe potuta durare più di qualche anno. Ammetto che fu un errore clamoroso.

Un errore forse commesso da molti.

Esattamente. Va riconosciuto il merito ai tre editori che sostennero allora il progetto – Enrico Iacometti, Anna Malato, Enrico Maria Messina – di aver avuto una visone estremamente lungimirante e prospettica. E poi ad Aie di aver sviluppato professionalmente tutte le varie complessità del progetto. Le idee innovative – mi insegna questa vicenda – bisogna seguirle, anche come «atto di fede». Per svilupparle poi con il massimo delle competenze professionali che abbiamo a nostra disposizione. Da quel giorno di quindici anni fa è cambiata la prospettiva del lavoro anche per molti di noi: si è fatta strada l’idea che potesse esserci una fiera dedicata esclusivamente a un comparto industriale e culturale rappresentato dalla produzione della piccola e media editoria italiana. Ed essere una fiera di successo, se gestita con una determinata e corretta logica imprenditoriale.

In questi quindici anni quali sono state le svolte fondamentali che Più libri ha avuto?

La svolta fondamentale c’è stata tra la prima e la seconda edizione. La prima edizione aprì un po’ in sordina, fece 41 mila visitatori su 4 giorni e circa 390 espositori; ma la svolta avvenne praticamente subito, nel momento in cui aprimmo le porte del Palazzo dei congressi. Ci fu subito perché si prese coscienza delle potenzialità che l’editoria indipendente aveva. Gli stessi editori si resero conto delle loro potenzialità. La possibilità di avere una vetrina a loro completa disposizione con spazi per incontri, presentazioni, convegni e dibattiti professionali, diede anche ai loro libri, alle loro collane, al loro progetto editoriale tutta un’altra disponibilità e visibilità. Questa mi sembra sia stata la prima grande svolta di Più libri. Nel secondo anno ricordo che abbiamo dovuto occupare anche parte dei sotterranei per ospitare gli eventi e dare più spazio agli stand. Dopo tre anni avevamo già case editrici in lista d’attesa. L’altro momento di passaggio è stato tra 2009 e 2010, con i primi effetti della crisi economica. I lettori spendevano meno, le piccole case editrici avevano meno risorse da investire, il «pubblico» – Comune, Provincia, Regione – iniziarono a ridurre le risorse alla Fiera. Erano risorse importanti perché i contributi pubblici coprivano circa il 40% dei costi. Anche qui imparammo una cosa importante: fare meglio con meno. Dal punto di vista organizzativo fu un momento di passaggio molto complicato, che continua ancora oggi, non potendo sfruttare economie di scala per la logistica dell’edificio che ci ospita e che ha degli oggettivi limiti di capienza per la vendita degli spazi. Abbiamo dovuto ridurre i costi, essere più efficienti e poi Aie ha dovuto investire più risorse per coprire i finanziamenti mancanti alla riuscita della manifestazione.

Dal 2017 si preannuncia una nuova fase…

Sì, ora aspettiamo la terza fase, completamente nuova, perché se riusciremo l’anno prossimo a spostarci nella Nuvola di Fuksas avverrà qualcosa d’importante. Da un lato la manifestazione dovrà inevitabilmente ripensarsi, pur conservando l’idea editoriale del progetto fondativo. Avremo l’opportunità di dare vita a nuovi progetti in uno spazio più grande e più moderno. Dall’altro avremo nuove economie di scala: più spazio vuol dire poter accogliere gli editori che fino a oggi non sono riusciti a entrare o quelli che vogliono allargare i loro spazi, e questo ci porrà di fronte a un nuovo modo di fare la fiera. Sicuramente solo la combinazione di questi due fattori farà crescere il tasso di innovazione della manifestazione, anche nuovi marchi, nuove opportunità di incontri. Questa nuova fase partirà da un presupposto per me importante: in questi quindici anni ci siamo resi conto che la fiera è un prodotto forte. Siamo più motivati che preoccupati da questa nuova sfida.

Un altro aspetto che mi sembra cambiato in questi anni è la dimensione internazionale che PLPL sta prendendo.

Senza dubbio. La parte internazionale fu sviluppata quando ci rendemmo conto che il progetto camminava con le sue gambe: potevamo quindi cominciare a invitare qualche editore straniero a vedere la produzione degli editori indipendenti italiani, per facilitare i progetti di internazionalizzazione anche dei piccoli editori. Tutta questa parte è cresciuta anche grazie al contributo di Agenzia ICE, della Regione Lazio, delle Camere di commercio. Per adesso la ritengo una parte ancora al di sotto delle sue potenzialità: sempre per ragioni di spazio ci siamo dovuti limitare a creare una piccola area B2B per i diritti (il Fellowship Program), invitando al massimo una ventina di editori dall’estero. Ma ci sono grandi potenzialità di crescita. E non esclusivamente in ottica professionale: ci siamo concentrati fino ad oggi sul B2B classico, ma penso che potrebbe essere arrivato il momento – proprio per il tipo di pubblico che partecipa alla fiera, curioso e aperto a nuove esperienze – di presentare ai lettori che frequentano Più libri quello che pubblicano i piccoli editorie stranieri.

In questi anni hai avvertito anche un cambiamento nel modo di essere «piccoli editori»?

I piccoli editori sono cambiati tantissimo. Non pretendo certo di attribuirne il merito alla fiera; penso però che Più libri abbia avuto qualcosa a che fare con tutto questo. La sensazione è che abbiano preso maggior consapevolezza delle loro possibilità, della loro produzione, e che sia cresciuto il loro coraggio. Abbiamo visto cambiare l’offerta degli editori in fiera, e questo non è che lo specchio e il presupposto per il cambio della loro offerta all’interno delle librerie. Hanno dovuto far fronte a una crisi drammatica, dalla quale stiamo uscendo ora, e credo che in qualche modo progetti come Più libri abbiano sostenuto i loro sforzi in questi anni estremamente difficili. In più, dirò una cosa banale che però è bene sottolineare: noi stessi siamo cresciuti insieme agli editori indipendenti, imparando insieme a loro come portare avanti una fiera. Abbiamo imparato a creare una fiera a loro dimensione, e loro hanno imparato a stare efficacemente in una fiera, non soltanto qui a Roma ma in Italia e all’estero.


Questo è un articolo della newsletter di Più libri più liberi a cura del Giornale della Libreria, per consultarla clicca qui.