Riviste di cultura. Dove sono finite? Una volta le si vedeva in libreria. Oggi quegli angoli sono ridotti – quando sono rimasti – a esporre riviste di design, lifestyle, architettura. Storiche riviste hanno annunciato la chiusura e, in linea generale, il settore non sembra avere molto ossigeno. Ma da cosa è stato causata questa scomparsa? E soprattutto, cosa si può fare, e come, per fare in modo che queste fucine del pensiero non vengano meno? E ancora, con l’avvento delle molte realtà online, cosa si può definire, oggi, «rivista di cultura»? Se ne parlerà in maniera diffusa durante l’incontro dell’11 dicembre, dedicato proprio al tema: Il mercato delle riviste di cultura. Chi le sta uccidendo? Il web o la mancanza di cultura?
Abbiamo parlato con Valdo Spini, presidente del Coordinamento riviste italiane di cultura e tra i relatori dell’incontro, per cominciare a inquadrare la situazione.
Anni fa in molte librerie c’era un assortimento ampio e variegato di riviste di cultura. Oggi quel settore praticamente non esiste più. La colpa è della rete, oppure del fatto che alcune riviste di cultura finiscono per non fare punteggi nelle classifiche di ANVUR?
Ambedue queste motivazioni sono assolutamente presenti, anche se non sufficienti a spiegare il fenomeno, che forse ha delle radici culturali. È vero che la rete ha scardinato la tradizionale tripartizione quotidiano-rivista-libro, nel senso che ad esempio oggi gli instant e-book battono in velocità le riviste, e le riviste sono insidiate da blog e siti, però è anche vero che probabilmente bisogna guardare anche un altro fenomeno altrettanto importante, cioè la bassa percentuale di lettori che c’è in Italia. Credo che lo sforzo necessario per cambiare una situazione di questo genere non possa essere portato avanti da una rivista da sola; ed è qui che io vedo il valore dell’associazionismo, e di quello che cerca di portare avanti il Coordinamento riviste italiane di cultura. Cioè creare e chiedere anche al pubblico occasioni in cui la rivista possa effettivamente essere vista, soppesata e nel caso comprata, contrastando la tendenza commerciale a non esporre più le riviste. È questo il motivo, ad esempio, per cui noi ci presentiamo con uno stand collettivo italiano al Salon de la revue di Parigi, che si svolge ormai da 26 anni: una singola rivista non ce la farebbe da sola a esporre a Parigi, ma molte riviste associate, con una piccola quota, possono proporsi a un pubblico che è veramente ampio. Quest’anno tentiamo di fare un ulteriore salto, cioè di proporre una rassegna delle riviste culturali italiane all’interno di Più libri più liberi, attraverso uno spazio piuttosto consistente di esposizione e vendita, affiancato da una serie di tavole rotonde e conferenze che animino l’interesse sui temi che possono essere legati alle riviste presenti; tenendo conto che questa operazione culturale ci è consentita dall’8×1000 alla Chiesa Valdese, che ha sostenuto questa iniziativa. Un fatto nuovo, e speriamo che sia veramente una rondine che faccia primavera.
In che modo può incidere un progetto di questo genere nel confronto con la redditività dello spazio nell’esercizio librario?
A questa domanda posso rispondere con due affermazioni. Primo, una rivista oggi deve avere alle sue spalle un ambiente. Le riviste sono di fatto un nucleo di volontariato culturale; ora, noi sosteniamo tanti tipi di volontariato, verrebbe da dire, sosteniamo anche questo [ride]. Dunque una rivista non può proporsi se non ha alle spalle un qualche milieu, un qualche ambiente che la sostenga, che sia interessato. In secondo luogo, non deve temere la rete, ma conoscerla per capire come cambiare e, soprattutto, per sfruttarla a suo vantaggio. Quindi da un lato deve curare molto, in maniera più o meno esclusiva, un aspetto monotematico, perché l’aspetto di una rivista completamente di varia può essere davvero insidiato da blog e siti; dall’altro lato, sfruttare l’integrazione della rete per, ad esempio, poter vendere singoli articoli in tutto il mondo, anche ad anni di distanza dalla prima uscita, è un elemento positivo che si integra con la vendita periodo per periodo della rivista stessa. Quindi bisogna coltivare assolutamente un rapporto di integrazione con la rete e aprirsi all’internazionalizzazione. E certo, poi se la domanda si incrementa, credo che anche le librerie non potranno non tenerne conto, e magari muoversi attraverso una politica (che mi sembra molto positiva) di presentazioni: il momento d’incontro con il direttore, i redattori, gli autori genera più risposte e reazioni nel pubblico, che poi spesso compra la rivista presentata.
Naturalmente poi l’effettiva diffusione dipende dalla capacità delle riviste di affrontare i temi dell’attualità: credo che sia necessario affrontare i molti problemi irrisolti nel mondo anche dal punto di vista culturale, e penso che questo compito, se ben svolto da una rivista, possa essere premiato dai lettori. E soprattutto lo vedo come un impegno; ricordo la frase di Leonardo Sciascia: «Le riviste sono finite perché è finito il colloquiare». Ecco, io invece penso che in una società liquida il dialogo vada riacceso, e penso che le riviste possano avere un ruolo importante in una società che ha bisogno di riacculturarsi, e che quindi ha bisogno di dotarsi di quegli strumenti di conoscenza e di proposta che consentono di affrontare i problemi terribili della nostra epoca al di fuori delle semplici correnti di impressioni e di reazioni del momento.
Pensa che l’ambiente fieristico influenzi anche l’internazionalizzazione del settore?
Assolutamente sì; ho visto ad esempio che uno dei nostri soci, la «Nuova Antologia», ha festeggiato i propri 150 anni insieme a «La Revue de deux mondes» francese, e questo è il tipico esempio di quello che si dovrebbe riuscire a fare a partire dalla frequentazione delle fiere internazionali. Sarebbe utile anche riuscire a ottenere il sostegno di realtà che possano anche fornire un concreto aiuto economico; penso ad esempio a come il Salon de la revue francese è sostenuto non solo dalle quote di iscrizione, ma anche dal Centre du livre e de la lecture. Speriamo che da un evento come quello che noi abbiamo organizzato per Più libri nascano anche una serie di rapporti di sostegno e collaborazione, dunque, oltre a quelli già esistenti (come quello con Aie). Naturalmente vale sempre il detto «aiutati che il ciel t’aiuta», nel senso che poi bisogna saper proporre un prodotto vivace, fecondo e internazionalizzato, in grado di reintegrarsi nella rete distributiva e nelle abitudini dei lettori.
Giovanni Peresson
Questo è un articolo della newsletter di Più libri più liberi a cura del Giornale della Libreria, per consultarla clicca qui.