Non mi piace troppo essere al centro dell’attenzione.
Ma ultimamente si fa un gran parlare di me.
E non so se ce la faccio a reggere questa situazione. Davvero.
Valgo davvero tre anni di viaggio, 25.000 foto e 15 quaderni di appunti? No, non sto dando i numeri, sto solo elencando quello che hanno raccontato i miei autori su di me. La mia genesi, la mia venuta al mondo altro non è che il frutto di migliaia di immagini e parole. E poi da una loro selezione sono arrivata io.
Marocco, Turchia, Lampedusa, Ungheria, Ucraina, Finlandia sono solo nomi. Solo macchie geografiche di colori diversi e divise da convenzioni e decisioni prese a tavolino o lasciate al lavoro che la natura ha deciso di svolgere nel corso di milioni di anni. La terra è più facile da dividere se in mezzo ci passa un corso d’acqua o inizia una montagna. Non credete?
Spesso mi domando chi sono e se lo chiede pure chi vive al di qua o al di là di me. E ancora più spesso queste domande non riescono a trovare una risposta chiara e concreta. C’è spaccatura, confusione nell’aria… dice qualcuno.
Hanno provato a raccontarmi in un libro e c’è un autore italiano che dice che il mio racconto è capace di togliere il fiato. Ma siamo sicuri che si stia davvero parlando di me? E poi continua dicendo che sono un’esperienza estetica impressionante che trascende la fotografia per invadere il campo del graphic novel. Un’esperienza umana ed etica grazie al rispetto e alla passione con cui gli autori sono riusciti a indagare i confini slabbrati e arrugginiti di quello stato mentale che chiamiamo Europa.
Io sono una storia che comincia con una nave che parte, con un aereo che decolla o con due piedi che si mettono in cammino e non è dato sapere quando questa storia finirà. Se mai finirà.
Io sono una foto mossa scattata correndo, mentre qualcuno che non sa dove andare decide una direzione e prega il suo dio di non doversi pentire del suo istinto e delle sue sensazioni.
La storia è così difficile da spiegare che proprio per questo si potrebbe raccontare facilmente. Basterebbe avere davanti qualcuno che mi ha attraversata e non per ascoltare le sue parole, ma per guardare le sue espressioni e i suoi occhi. Starebbe davvero tutto lì il senso del discorso. E le parole starebbero a zero.
Parlano troppo di me.
E non mi sono mai spiegata il motivo. Sono qualcosa di semplice in fondo.
Parlano tanto di me.
Più che semplice oserei addirittura definirmi didascalica e banale.
Lottano per me.
E questo non riesco a perdonarmelo.
Muoiono per me.
E non credo che me ne farò mai una ragione.
Per superarmi, per conquistarmi, per oltrepassarmi.
Mi chiamano confine.
Per qualcuno sono una linea.
Per tanti altri, sono e resterò soltanto un’indelebile Crepa.